Eva e la sua amica “ipocondria”

Eva crede di “essere ipocondria”, l’ansia di essere sempre malata, 

Eva si identifica con l‘ipocondria, a tal punto che diventa una sua alleata. 

Nel tempo questa amicizia si trasforma in una lotta, una battaglia contro il mondo, soprattutto contro se stessa. 

L’ipocondria e’ diventata una sua nemica.

Il peso che si è sempre portata dentro l’ha cambiata, rendendole la vita difficile. 

Com’è riuscita Eva a comprenderne i limiti e ad affrontarla?

Eva è una donna. Sulla sessantina. È una bella donna e fa anche un bel mestiere: l’insegnante. Eva ama il suo lavoro, ama la sua materia, ama stare con i “suoi ragazzi “. Li accoglie come figli, li cresce e li fa maturare come una madre giusta, buona.

Insegna loro non solo come fare i conti o com’è fatto il corpo umano. Insegna loro l’importanza della comunicazione, con la dolcezza del suo sguardo e con le sue esperienze di vita che l’hanno fatta diventare la donna che è.

Ma anche Eva è stata giovane, anche Eva è stata piccola, anche Eva è stata figlia.

E la storia di Eva è inimmaginabile osservandola solamente percorrere i corridoi dell’istituto scolastico o incrociandola in cassa al supermercato con il suo bel sorriso e gli occhi blu che sembrano due perle.

Eva ha sofferto. Eva ha trattenuto. Dolore, incomprensione, giudizi. E crescendo ha sviluppato un gran senso di inferiorità da portarla a convincersi di non valere. Di non essere capace. Di non farcela.

E come ha reagito Eva a questi pensieri che la schiacciavano, che la tormentavano? Che le rendevano invalidante ogni minima decisione quotidiana?

Con la malattia. Una malattia che ha origine quando Eva era alle elementari. O forse anche prima. 

Eva mi racconta un episodio di quando aveva 6 anni. 

Quello è uno dei ricordi più antichi che ha. Ma forse uno dei più importanti. 

E da lì, più o meno, è cresciuta in lei l’idea del fallimento. Quel logorante e continuo bisogno di conferme. Così gli altri hanno preso il potere, il sopravvento su di lei. Ed il giudizio altrui era linfa vitale per la sua identità. Sempre alla ricerca di uno sguardo di approvazione, di una domanda di interessamento. Di capire dagli altri se valeva, se era importante per qualcuno, se era capace o affidabile.

Eva era seduta sul primo banco ed entrò il preside per salutare i bambini di prima elementare. C’era agitazione nelle file. Impettiti nei loro grembiulini inamidati e i capelli ben pettinati con squadra e righello. Erano disposti in ordine sui  banchi in silenzio, quel silenzio che esprimeva orgoglio e speranza di poter dimostrare di conoscere e aver studiato.

Appena il preside fece la domanda, Eva alzò la mano perché sapeva la risposta e voleva essere la prima a darla. 

I genitori di Eva in fondo alla classe fecero cenno alla maestra. 

“Non le dia la parola, non conosce la risposta “.

Quegli sguardi rimasero impressi in Eva. Una memoria che non ha tempo, non ha spazio. 

Un ricordo che ha dato vita alla Storia di Eva. 

Non ha potuto rispondere perché non le è stato permesso. 

Non ha potuto rispondere perché i genitori non si sono fidati di lei. 

Non ha potuto rispondere perché non hanno creduto nelle sue capacità. 

E così la parola è stata data ad un altro bambino. La sua risposta, esatta, si è persa nel silenzio della sua mente, rimanendo il più grande interrogativo.

Un enorme punto di domanda.

Questo ricordo, associato ad altre esperienze di fallimento, anzi di presunto fallimento “non ce la puoi fare, scegli una scuola più facile, non iscriverti all’università, vai a lavorare, tua sorella è più brava” è cresciuto in Eva, con Eva come un mal di testa, un male alla gamba, un bisogno di continui esami medici, un sospetto di una malattia grave, giornate passate dal medico per ricette e accertamenti. 

Notti in bianco per la paura di morire, pianti soffocati tra gli sguardi del marito e dei figli. 

La paura di essere malata era diventata la sua identità. Senza malattia non c’era Eva. La malattia confermava la sua esistenza, la sua condizione di essere viva e soprattutto le garantiva la preoccupazione altrui, l’interessamento altrui. Le garantiva la considerazione. 

Così, quella che può essere definita “ipocondria” era diventata Eva.

Eva e i suoi sintomi. 

Eva e il suo dolore. 

Eva e le sue paure. 

Una vita sotto una vita. Una paura celata ma persistente. Un bisogno che sottende un altro bisogno.

Eva è venuta in studio. 

La prima volta che l’ho incontrata ricordo che aveva lo sguardo perso in un vuoto, un buco nero di terrore, dolore, paura, morte. Era lì per sfinimento.

Era lì perché in famiglia non reggevano più le sue lamentele.

Era lì, forse senza crederci, per disperazione.

Anni prima aveva provato un percorso di psicoterapia che si era rivelato l’ennesimo fallimento. L’ennesima tacca da inserire nel repertorio delle sconfitte. Ormai ci era abituata.

Forse Eva non era pronta a cambiare. 

Il tempo per la psicoterapia non è un tempo uguale per tutti.

C’è un tempo, giusto, per ognuno di noi.

È il tempo dell’accettazione, il tempo del cambiamento. Il tempo della ristrutturazione e dell’accoglienza di nuovi significati. Il tempo di mettersi in discussione.

Eva iniziò il percorso con quell’incredulità che aveva accompagnato tutte le sue scelte di vita.

Eva continuó, con costanza e impegno, arrivava puntualissima ai nostri appuntamenti, non ne ha mai disdetto uno, raccontava di se’ con lucidità mista a qualche lacrima. Ascoltava le mie ristrutturazioni, e tornava la settimana seguente con le sue riflessioni.

Eva piano piano iniziava a credere nella terapia, iniziava a credere in me terapeuta, soprattutto Eva iniziava a credere in se stessa.

Sono passati quasi due anni, ed Eva oggi sta bene.

Non è più andata dal medico, non ha più ascoltato il suo corpo, non si è più lamentata con il marito. Non ha più fatto infinite telefonate alla figlia per elencare tutti i suoi sintomi.

Eva è entrata a scuola a testa alta, accettando incarichi di grande responsabilità con la convinzione di poterli sostenere. Di essere capace.

Eva respira. Quel profumo di vittoria, di libertà.

Ecco le parole di Eva alla fine del suo percorso di terapia, ci saluta così:

“Buongiorno Dott.ssa….come ci eravamo accordate l’ultimo giorno che ci siamo viste, la aggiorno sul periodo trascorso: l’estate è passata abbastanza bene pur con qualche momento di  fragilità….del resto ho capito che, almeno un po’, devo imparare a conviverci…ora ho ripreso a pieno ritmo la scuola che quest’anno si fa particolarmente impegnativa per via della nuova dirigenza e dei numerosi incarichi che mi sono sentita di accettare e spero di riuscire a svolgere nel miglior modo che mi è possibile….

Intanto le auguro buon lavoro….e, in ogni caso, sapere che posso eventualmente contare su di lei mi da sicurezza….

Buona giornata.”

Ciao Eva, sono felice di averti aiutato a scoprire chi sei, restituendoti la libertà.