L’adultizzazione in famiglie fragili: la nostalgia di non essere stati bambini e il riscatto dei figli

L’adultizzazione e’ l’espressione di una dinamica relazionale attraverso cui i genitori responsabilizzano i figli e attribuiscono loro impegni, compiti e mansioni che appartengono alla sfera adulta. Il bambino quindi non cresce “da bambino”, e’ un bambino già grande che non si può permettere di raggiungere e superare le normali fasi dell’età evolutiva. Di conseguenza in queste famiglie non c’è una connessione emotiva e la gerarchia dei ruoli, ognuno con i propri diritti e doveri, non viene garantita ne’ rispettata.

Roberta racconta la sua storia, il suo percorso terapeutico con un’estrema sensibilità. Sembra di provare le sue stesse emozioni, di essere protagonisti dei suoi vissuti.

                       A mio nonno…

È davvero tutto così semplice nella vita? 

Ad ogni causa corrisponde una conseguenza, esistono persone buone e persone cattive e tutto ruota intorno alla convinzione di poter categorizzare la vastità dell’essere umano in poche semplici parole. 

Le emozioni principali che ognuno di noi prova sono rabbia, tristezza, gioia, paura eppure spesso ci troviamo di fronte a stati d’animo che non sappiamo decifrare, che per qualche motivo sono un insieme di mille sensazioni diverse. 

Quando siamo piccoli ci viene insegnata la differenza tra un eroe e un cattivo, tra bene e male, tra un salvatore e una causa persa, ma l’unica vera differenza dipende solo da chi racconta la storia. In fondo tutto ciò che riguarda la formazione delle prime emozioni, dei tratti distintivi del carattere e della lettura iniziale che diamo delle persone che ci circondano, avviene quando siamo piccoli perché non sappiamo ancora bene chi siamo e diventiamo facilmente malleabili dall’ambiente circostante. 

A quest’età si è incondizionatamente liberi, liberi di poter far le cose a modo proprio, di poter sbagliare, di poter essere difesi, di poter essere perdonati…ma se per qualche motivo tale libertà di essere un bambino ci fosse negata? 

Qui inizia la mia storia. 

Per gran parte della mia vita il cattivo per me è stato mio zio, un unico uomo all’apparenza normale ma che dentro di sé racchiudeva un grande dolore e, non sapendo come gestirlo, non poteva fare altro che sfogarlo sugli altri. 

All’epoca ero una bambina, cresciuta in una famiglia bellissima, i miei genitori non erano molto presenti ma passavo gran parte del tempo con i nonni e per me loro erano tutto. 

Come tutte le favole le cose non possono andare sempre bene e a mio nonno, un giorno, venne diagnosticato un tumore all’esofago, per fortuna curabile, anche se è stato privato per sempre delle corde vocali, non poteva dunque più parlare. La sua voce da quel giorno non si sentì più e tutto quello che un tempo era una bellissima famiglia si disgregò lentamente. 

La malattia aveva comportato il problema della successione dei beni, i quali dovevano essere divisi tra i due figli, mio zio e mia mamma. 

Mio zio era il primogenito e in quanto tale voleva ricevere una parte maggiore dell’eredità e da qui nacquero i litigi. 

Mai avrei immaginato di assistere a tanta cattiveria, mai avrei pensato di essere totalmente terrorizzata da una persona che fino a pochi giorni prima voleva giocare con me. Avevo poco più di 10 anni e una sorella più piccola, le mie giornate erano totalmente concentrate in quegli istanti in cui mio zio entrava in casa sbattendo la porta…lì iniziò l’incubo. Due anziani indifesi, per giunta i suoi stessi genitori, coloro che avevano sacrificato tutta la loro vita per lui, messi in ginocchio da un figlio troppo avido per accorgersi che ciò che contava davvero nella vita non erano i soldi. 

Urlava, faceva la voce grossa contro un uomo che non riusciva neanche a parlare. In quel momento qualcosa dentro di me si è rotto per sempre, ero immobilizzata e non riuscivo a reagire, a parlare, quasi neanche a respirare, chiudevo gli occhi e mi andavo a nascondere sotto il letto sperando solo che quel mostro non venisse a prendere anche me. 

Non mi sono mai sentita più sola di allora e quella sensazione purtroppo non se ne è mai andata; volevo qualcuno che mi proteggesse ma mio padre era sempre all’estero per lavoro e mia mamma non c’era perché anche lei lavorava. Ero dunque solo io che potevo in qualche modo cercare di difendermi e difendere anche mia sorella. 

Da quel giorno non sono mai più stata una bambina

Ho iniziato a chiudermi in me stessa affinché nessun altro potesse ferirmi e non mi ero resa conto che tutto dentro di me era ridotto in mille pezzi. Non ero più la stessa, ho iniziato a non parlare perché comunque non sarei riuscita ad esprimere quello che sentivo e comunque l’unica persona a cui potevo dirlo, ovvero mia mamma, era troppo impegnata con i miei nonni, aveva già troppi casini. 

Così ho iniziato a mettermi da parte, ad ignorare ogni mio piccolo problema e a concentrarmi solo nel far stare bene gli altri

Mi sentivo solo un peso, una persona che non doveva essere lì e che per qualche motivo non meritasse di essere amata dagli altri. Non mi importava molto di me, mi autosabotavo credendo di avere il dovere di confortare, di aiutare, di sostenere chiunque a parte me stessa

La mia salute, sia fisica che psicologica, si stava distruggendo ogni giorno di più, e non riuscivo più a gestire tutto il dolore, la rabbia e il caos che mi appartenevano e somatizzavo con un semplice mal di testa. Tuttavia non era poi così un semplice mal di testa, ma l’avvertimento che qualcosa dentro di me non mi faceva stare bene. 

E’ stato proprio questo campanello d’allarme a farmi rendere conto che forse era qualcosa di più, più profondo e nascosto che all’età di 17 anni non riuscivo ancora ad accettare. 

Come una specie di ombra sempre al mio fianco, che si nutriva dei miei traumi, dei sentimenti negativi e che li faceva pesare nella mia testa giorno dopo giorno. 

Mi faceva male, ma era anche l’unica cosa che mi rendeva visibile agli occhi di mia mamma. Si preoccupava molto per me a causa di questo mal di testa, tuttavia non riuscivo e non volevo raccontarle tutti i miei problemi per non essere un ulteriore peso sulle sue spalle. Il mal di testa divenne un modo per dirle implicitamente che non stavo bene. 

All’uscita da una visita neurologica, mia mamma mi disse per la prima volta che forse dovevo rivolgermi a qualcuno per farmi aiutare. 

Credo che sia stato in quel preciso momento che ho iniziato a dare importanza a me. 

Ho iniziato il percorso con molto timore perché avevo paura fin dal primo momento che ho messo piede in quella stanza, di quello che sarebbe venuto fuori, non volevo lasciare tutti i problemi nascosti dentro di me, ma nemmeno affrontarli. 

Avevo deciso però di mettermi in gioco e allora feci il primo passo, mi aprii per la prima volta con qualcuno. 

Ero contenta perché finalmente avevo trovato una persona che mi ascoltasse, l’unico problema era che non mi ero ancora resa conto di quanto dolore avessi portato dentro per troppo tempo. 

All’inizio fu molto difficile per me, tornavo a casa stando peggio di prima, era normale, perchè iniziavo a vedere sconvolto il mio mondo da un giorno all’altro e, soprattutto, a capire che non ero sbagliata soltanto perché avevo vissuto un evento brutto, ma che ero una semplice ragazza che provava a modo suo e con le sue sole forze ad affrontare emozioni che non capiva e che per una vita le sono state insegnate come negative. 

Andando in terapia quel mostro dentro la mia testa iniziava a prendere forma, e mi spaventava ancora più di prima, ma dovevo prima vederlo per poi poterlo sconfiggere. 

Capii che per molti anni la paura, la tristezza, il senso di colpa avevano fatto parte di me, avevano preso il sopravvento e in quei sentimenti trovavo quasi conforto, come se mi meritassi tutto quel male.  

Soltanto dopo aver analizzato le mie emozioni che compresi quanto non si possa tenere tutto sotto controllo, ma che tutti i sentimenti, anche la rabbia, la colpa, il dolore, facciano parte di noi. 

Non si può pensare di eliminarli altrimenti elimini anche una parte di te stessa.

Una singola parola che racchiude tutto il mio percorso psicologico è: adultizzazione, parola che fino a qualche mese fa non sapevo nemmeno esistesse. 

Significa essere più grandi del dovuto, crescere bruciando le normali tappe psicologiche che ogni essere umano dovrebbe compiere durante la sua vita

Perché dunque un bambino dovrebbe farsi carico di problemi, sensazioni, responsabilità che normalmente spettano ad una figura adulta? 

Il principale motivo per cui ciò avviene è che molte volte l’ambiente che ci circonda è in uno stato di squilibrio e per questo entriamo in dinamiche relazionali disfunzionali in cui sopprimiamo la nostra parte più autentica, perché è quella che siamo stati abituati a zittire fin da piccoli. Di fatto col tempo poi ricreiamo le stesse dinamiche che per quanto dolorose, ci danno pur sempre l’illusione di essere amati.

Cresciuta in una famiglia in cui la figura paterna era psicologicamente assente, fin da piccola ho sentito il dovere di occupare quel posto vacante, perché le circostanze e le figure a me vicine lo richiedevano

Sono diventata un compagno per mia mamma, mettendo da parte tutto ciò che mi avrebbe occupato del tempo, amicizie, amori, esperienze. Il mio tempo era oberato dal diventare il perfetto marito, ubbidiente, che aiuta, che supporta e che si prende colpe che non erano soltanto sue, per il giusto funzionamento della famiglia. Responsabilità che ho accettato per non far stare male mia mamma e mia sorella, non perché non credessi che loro non ce l’avrebbero fatta da sole, ma perché dopo aver visto tanta cattiveria volevo solo portare bontà, gentilezza e aiuto agli altri…in fondo era proprio ciò che mancava a me: un compagno a cui affidarsi e un padre che mi proteggesse. 

Così, quel ruolo di padre e marito, mi dava una sorta di sicurezza in modo che non potessi più trovarmi in una situazione di pericolo. 

Cercavo solo di essere amata dagli altri; anche se magari vi erano persone che mi volevano bene; per me l’amore era diventato un dovere

Ho avuto quindi paura, lasciando questo ruolo, di perdere l’unica possibilità di essere amata e voluta. Questo sentimento di sacrificio si è poi fossilizzato nel mio bambino interiore impedendogli di crescere e raggiungere tutte le tappe gradualmente, portandomi invece ad essere più forte, più grande della mia età, trascinandomi dietro un peso che non ero in grado di sostenere. 

Sono una ragazza che fatica a riconoscersi, ma si rispecchia soltanto attraverso il parere altrui, sente costantemente il bisogno di sacrificarsi per gli altri come unica dimostrazione d’amore e soprattutto non si permette di essere felice, allontanando tutto ciò che potrebbe portarle via tempo dall’adempiere al suo ruolo costruito. Non sente di poter essere amata, aspetta soltanto il momento in cui le persone si stanchino di lei, credendo di essere voluta dagli altri solo per bisogno. 

Sto vivendo la vita di una cinquantenne intrappolata in un corpo da bambina. 

Attraverso il percorso terapeutico un po’ alla volta ho collegato tutti gli ingranaggi, per ricominciare a vivere nel giusto modo, per ritrovarmi dopo essermi persa

Questo mi ha aiutata a riprendere in mano la mia vita, ad ascoltarmi invece che sacrificarmi sempre per gli altri, anche perchè non puoi guarire e proteggere gli altri mentre dentro qualcosa si spezza.  

Mio zio è sempre stato il mio grande mostro, ma è proprio questo il punto: nessuno nasce cattivo ma lo si diventa crescendo, a causa di sentimenti spiacevoli, di traumi irrisolti, ma se guardo oltre la superficie, lui non è altro che un semplice essere umano non in grado di gestire il dolore e di andare oltre le proprie fragilità, preferendo mascherarsi di arroganza e superbia. Ognuno di noi può decidere come reagire ad un brutto evento che la vita ci pone davanti, è il modo in cui reagiamo che fa la differenza

Sì, è vero, io potrei essere incavolata con i miei genitori dopo che per una vita mi hanno sempre imposto responsabilità che non erano mie e che non sapevo gestire, ma in fondo amare qualcuno vuol dire anche accettare che non si è perfetti nella vita e che tutti sbagliano e che anche loro, come chiunque altro, affrontano sentimenti e situazioni non facili. 

Bisogna saper perdonare non perché le altre persone lo meritino, ma perché non ha senso sprecare la vita soffermandosi soltanto sulle cose negative, cercando di guardare le cose da un altro punto di vista

Senza quel litigio in famiglia molto probabilmente non sarei la persona di adesso, non sarei così empatica con gli altri e questa empatia è la parte più bella di me, mi fa sentire viva. I sentimenti sono così forti che mi sovrastano e mi fanno entrare in contatto con gli altri, creando un ponte nel quale sento tutto quello che sente l’altro, gioia come dolore.

E’ stato proprio quando mio nonno è morto che ho capito quanto le emozioni siano complicate. E’ stato il periodo più brutto della mia vita, ma è stato proprio allora che ho capito quanto amore io avessi nei suoi confronti. I miei nonni erano per me come genitori, le uniche persone da cui mi sono sempre sentita voluta e protetta, i miei eroi e per quanto triste e arrabbiata sono stata nel perderlo, ho visto per la prima volta la mia forza

Per lui ho deciso di rivivere senza farmi rovinare la vita sempre dagli altri, ma semplicemente essendo felice a mio modo.

La vita può essere semplice se si capisce il giusto meccanismo. 

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